28 Anni Dopo - Recensione

Data di uscita: 18 giugno 2025 (Italia), 20 giugno 2025 (Stati Uniti)
Regista: Danny Boyle
Sceneggiatura: Alex Garland
Budget: 60 milioni di dollari
Effetti speciali: Union VFX, DNEG
Fotografia: Anthony Dod Mantle
Montaggio: Jon Harris
Colonna sonora: John Murphy
Scenografia: Mark Tildesley
Costumi: Suttirat Anne Larlarb
Produzione: DNA Films, Decibel Films, Searchlight Pictures
Distribuzione: Sony Pictures Releasing International, Searchlight Pictures
Cast: Jodie Comer, Aaron Taylor-Johnson, Nyasha Hatendi, Rory Kinnear, Naomi Ackie

La Politica dei Morti Viventi

Ventotto anni dopo l'inizio. Ventotto anni dopo la corsa forsennata di Cillian Murphy in una Londra vuota. Ventotto anni dopo quel film che, nel 2002, riscrisse le regole del cinema horror... Danny Boyle è tornato. E con lui, Alex Garland.

"28 anni dopo" non è semplicemente un sequel: è un confronto diretto con il passato, con il trauma, con l'eredità ingombrante di un cult che ha ridefinito gli zombie per un'intera generazione. E che ora si trova a dover dire qualcosa di nuovo, in un panorama dove il genere è stato sfruttato fino allo sfinimento.

Eppure, Boyle e Garland riescono nell'impresa. Non cercando di replicare l'urto visivo e narrativo di 28 giorni dopo, ma scegliendo la via della riflessione. Un film che non corre più, ma respira. Si sofferma. E osserva.

In questo terzo capitolo, il Regno Unito è ormai una terra bruciata, una zona di quarantena permanente, inaccessibile e dimenticata. Una metafora potente, che evoca più la chiusura identitaria della Brexit che la segregazione sanitaria del Covid. Un'isola – letteralmente e simbolicamente – che si è tagliata fuori dal mondo e ha accettato la regressione a un'epoca premoderna, medievale.

Ma non è solo geopolitica. È antropologia. È cinema che interroga l'umano. Il film scava nei resti dell'umanità, in una società che si è ridefinita su logiche tribali, chiusa, sospettosa, dove la paura è diventata un carburante culturale. Gli zombie non sono più invasori esterni. Sono parte dell'ecosistema. Una nuova forma di vita. Alcuni si sono adattati, si sono evoluti. Hanno persino creato una struttura sociale.

Nel cuore della storia, una famiglia su un'isola autosufficiente. Il bambino protagonista, nella sua prima esplorazione sulla terraferma, scopre che il padre mente, che la verità è più sfuggente di quanto pensasse. Ed è in questa microstoria che Boyle costruisce il vero centro del film: la crescita, il disincanto, la ricerca della verità in un mondo dove anche la verità stessa è contaminata.

È qui che il film trova la sua forza cinefila. Boyle mescola i codici del post-apocalittico con suggestioni visive tratte dal cinema storico britannico. Inquadra il presente con la lente del passato, come se ci dicesse che ogni fine è un ritorno all'origine. L'uso di immagini tratte dal cinema medievale inglese serve a rievocare un'epoca in cui la violenza era legge e la civiltà un fragile patto tra sopravvissuti. La società moderna, spogliata della sua tecnologia, sembra ripiegare su se stessa, tornando a una forma arcaica e brutale di collettività.

Il confronto con The Last of Us diventa inevitabile. Non solo per l'ambientazione post-apocalittica e la dinamica adulto-bambino, ma per la centralità del viaggio come strumento di trasformazione. Come Joel ed Ellie, anche qui i personaggi si muovono in un paesaggio devastato, dove il pericolo non è solo biologico ma morale. I mostri sono fuori, ma anche dentro. E le decisioni etiche, familiari, intime, sono quelle che davvero definiscono il confine tra umano e disumano.

"28 anni dopo" si trasforma così in un racconto di formazione mascherato da horror. Una favola nera. Un'odissea interiore. E in questo trova affinità anche con il cinema contemplativo di Tarkovskij, dove ogni spostamento nello spazio coincide con un passaggio nella coscienza. Come in Stalker, il viaggio è meno geografico e più spirituale: si attraversano macerie per cercare qualcosa che è sempre stato dentro.

"28 anni dopo" è allora anche questo: un percorso esistenziale, un'indagine sul dolore, sull'isolamento, sulla memoria. Un horror che non si accontenta di spaventare, ma che riflette. Sul corpo, sulla società, sul tempo. Garland e Boyle firmano un'opera che si muove tra il genere e la filosofia, tra l'urlo e il sussurro.

Forse non tutto è perfetto. Forse alcune trovate restano abbozzate, e l'insieme sa di episodio pilota di una nuova trilogia. Ma il coraggio c'è. E c'è la voglia, ancora una volta, di usare il cinema per dire qualcosa.


Informativa privacy Cookie Policy

link a facebook link a instagram link a youtube