Grugniti di famiglia
Un paese arroccato tra le colline umbre, una maledizione ricorrente che
viene dalla memoria e dalla fame.
«Non sapete un cazzo di niente!» ride Alfio, spalancando quella sua bocca fatta di denti storti e nicotina in un abisso di risate ruvide e fuligginose. «Questi due stanno facendo il giro egostro...» si ferma, grattandosi la faccia butterata.
«Enogastronomico, zio, un tour enogastronomico!» lo corregge Geppo, ragazzetto alto con una faccia da chierichetto. L'altro, Stilo, l'amico un po' tracagnotto, sta affogando nella sua settima birra, gli occhi persi nel vuoto e un sorriso ebete stampato in faccia. Dal bancone, Mario, una montagna di carne in camice bianco, annuisce sornione come se stesse benedicendo un sacrificio.
«Insomma... Roma-partenza e poi...» singhiozza Stilo «'ste cascate di Marmore e 'sto cazzo di lago... come minchia si chiama...» farfuglia con la lingua impastata. «Domani si va a Norcia a rubare i salami bro!» spruzza alcol nell'aria, «e poi Montefalco, vino demmerda!» infine rutta così forte da far tremare i bicchieri.
Il locale esplode in una risata oscena. Mario deposita tre boccali sul tavolo con la fretta di chi ha lasciato il gas aperto. Cacciatori col fucile in spalla si mischiano a signorotti in giacca e cravatta in un'euforia di brindisi e chiacchiere da bar. Alfio guarda i giovani forestieri e ride: «Che teste di cazzo che siete, voi creature di città».
«Zio, raccontaci. Perché stasera è special» lo incalza Geppo, «che è 'sta storia dei fucili?»
«Stanotte cacciamo l'Uomo Cinghiale» risponde secco l'uomo. Stilo si ridesta di colpo: «Fra' che storia assurda, la tipa del tabacchi ne stava parlando stamattina».
Alfio accende una sigaretta storta, si gratta il petto villoso che esplode dalla divisa militare: «Allora questo giro lo offrite voi» dice puntando i bicchieri vuoti e schiumosi. I due annuiscono, già preda della storia.
«Perfetto. Voi siete giovani e venite da un posto sicuro. Ma qui fuori, piccoli stronzi... qui fuori ci sono mostri che farebbero cagare sotto il diavolo in persona.
Sarà stato il '48 o '49. La fame regnava sovrana, il lavoro era un miraggio, e la sera si tornava a casa con le budella vuote e una zuppa di acqua sporca per cena».
«Bro, ma è la solita storia tipo ok boomer» sbotta Stilo, ormai completamente fatto.
Alfio sbatte il pugno sul tavolo e i bicchieri saltano, un terremoto improvviso. Gli occhi gli si accendono di una luce cattiva nelle pupille umide: «Attento a quella bocca di merda, ragazzino. Questa notte è sacra per noi. Non vengo io a pisciare sulle stronzate in cui credi!»
«Fra', scusa, ha ragione lui. Che idiota della madonna che sei...» mormora Geppo, rosso come il tramonto, il viso che brucia di vergogna.
«Comunque» Alfio soffia fuori il fumo insieme alla rabbia, «Per non crepare come topi si era tornati a cacciare, non c'era un cazzo altro da fare» Alfio si passa la lingua sui denti ingialliti. «Gli uomini si alzavano che pure i galli dormivano, e andavano a caccia per giorni, come dei pazzi. Una volta tornarono con un cinghialetto ancora vivo e quattro uccelli di merda che manco il gatto li voleva. Anche se avevano una fame che si sarebbero mangiati pure le mutande, decisero di non ammazzarlo subito quel maialino. L'inverno stava arrivando e le dispense erano vuote come le loro pance - una bella battuta di cinghiali grossi poteva salvare il culo a tutti»
Fa una pausa per bere, gli occhi persi nel bicchiere come se cercasse di scorgervi un passato lontano e inquietante.
«Al raduno della settimana dopo si presentarono tutti i maschi del paese, dai dieci anni in su. Tutti armati, tutti con la fame negli occhi. C'era il mio bisnonno, il medico, la fruttivendola, il sindaco, tutti. Pietro, il nipote del fornaio, aveva appena fatto dodici anni ed era lì con gli altri pronto a uccidere per sopravvivere» si ferma per un sorso. «Nell'ultima settimana si era preso cura lui del maialino selvatico e, anche se il nonno gli aveva detto che era una gran cazzata, gli aveva dato pure un nome: Milo»
La voce di Alfio si fa più cupa, eppure una strana soddisfazione gli increspa le labbra screpolate.
«Ma Milo doveva fare da esca per il suo branco» Alfio abbassa la voce, quasi un sussurro roco. «Lo legarono a un albero solitario, in mezzo a una radura. Come un'offerta».
«No dai, che merda!» piagnucola Geppo, mentre Alfio gli si avvicina con l'alito che sa di tabacco marcio e birra.
«Trenta cacciatori armati si nascosero nel bosco. Due persone ogni trenta metri, a circondare tutta la radura. E poi aspettare. Aspettarono per ore sotto una pioggia di merda. Alcuni si riparavano sotto le felci, altri si arrangiavano con delle coperte. Il fornaio e Pietro stavano sotto dei pini enormi che li tenevano asciutti. I tuoni e la pioggia coprivano i lamenti disperati del piccolo cinghiale Milo, che saltava e grugniva terrorizzato a ogni rumore».
Alfio si ferma, la voce roca, mentre i ragazzi lo fissano con occhi sbarrati, in attesa del colpo di scena.
«Dopo ore, quando la pioggia cessò, spuntarono quattro bestioni dal bosco» Alfio si interrompe di colpo, il bicchiere sospeso a mezz'aria. «La trappola aveva funzionato. I cacciatori alzarono i fucili. Una femmina enorme si avvicinò al muso di Milo e...»
Sbatte il pugno sul tavolo: «BANG!»
Geppo si ritrae con un «Nooo bruh...» carico di delusione, un lamento che si perde nel frastuono del bar.
Alfio tracanna la birra e ne ordina un'altra con un cenno. «Proprio così» riprende dopo un rutto che fa tremare il tavolino, «stecchita al primo colpo. Nessuno ha mai saputo chi sparò per primo, ma poi partirono tutti, una pioggia di piombo si riversò verso la radura, un fottuto inferno di cartucce che volavano impazzite. I tre cinghialoni uscirono completamente di testa, e si lanciarono nel bosco come dannati travolgevano tutto e tutti. I cacciatori non se l'aspettavano una furia del genere, e scapparono a rotta di collo come potevano. Il Fornaio afferrò Pietro e lo trascinò via, mentre alla loro destra urla di aiuto echeggiavano senza sosta. Buttarono i fucili quando il rumore delle bestie gli passò dietro come un treno, e subito dopo altre grida si alzarono nella notte».
«Scommetto che il nonno si becca una bella rullata!» dice Stilo con un ghigno ebete sulla faccia e la bocca semi spalancata.
«Perderesti la scommessa, bamboccio!» gli sputacchia Alfio puntando il dito giallo di nicotina.
«O almeno la perderesti in questo momento. Nel casino che seguì, quando i cacciatori riuscirono a radunarsi su una collina, si contarono tre feriti gravi e sette dispersi. Con orrore, il fornaio scoprì che anche il suo Pietro era fra quelli. Decisero per una sortita veloce, tornare alla radura tutti insieme e raccogliere i sopravvissuti. Si mossero uniti fino a raggiungere le ultime piante prima dello spiazzo, i fucili spianati, i passi lenti e guardinghi, e il respiro pesante di chi conosce la paura per la prima volta».
Alfio si ferma, la voce gli trema, mentre un'onda di follia gli annacqua gli occhi scuri.
«Le canne si abbassarono quando le urla strazianti di Pietro arrivarono come schiaffi; corsero verso la radura, e videro l'orrore sotto l'albero solitario. Milo il cinghialetto era scomparso, la corda strappata a morsi. Al suo posto, seduto con la schiena al tronco, Pietro urlava e si dimenava, mentre quattro cinghiali gli strappavano via gli arti a morsi. Prima le dita, una ad una, scrocchiando come rametti secchi tra le zanne, poi i polsi che si staccarono con uno schianto umido, lasciando brandelli di tendini a penzolare come liane insanguinate. Le caviglie cedettero in un gorgoglio di cartilagine maciullata, i piedi strappati via come stivali di carne. Quando i cacciatori si ripresero dall'orrore inaspettato era troppo tardi, i loro spari caddero nel vuoto oltre il ragazzino straziato.»
«Minchia fra', che roba malata!» esclama Stilo.
«Bro, questa è troppo pesante» gli fa eco Geppo, il viso pallido come un lenzuolo e sudato di eccitazione.
«È qui che comincia il bello, mica pensavate fosse finita?» ridacchia Alfio dopo una sorsata generosa. Due colpi di tosse, due grugniti, e si schiarisce la gola: «I cacciatori rimasero tutti di pietra, paralizzati, con la paura che quei mostri potessero attaccare di nuovo. Ma il vecchio fornaio non ci stette, buttò il fucile e partì di corsa verso il nipote che agonizzava sotto il cerro. Qualcuno provò a urlare 'Aspetta, coglione!', ma fu troppo tardi. Una sagoma pelosa e zannuta schizzò fuori dalla foresta e lo travolse con una forza tale da farlo roteare due volte in aria. Cadde con un rumore di ossa che si sbriciolavano. Poi, come dal nulla, un secondo cinghiale finì il lavoro passandogli sopra con tutto il peso, trasformandogli il torace in una poltiglia sanguinolenta di costole frantumate e organi spappolati.»
«Bro, che trip assurdo» fa Stilo, «stavano trollando i cacciatori! Tipo uno specchietto per le... come cazzo si dice?»
«Per le allodole, bamboccio» riprende Alfio, «Esattamente. Quei bastardi stavano facendo quello che i cacciatori avevano provato a fare con loro: avevano strappato mani e piedi al ragazzo per tenerlo lì come esca, e il povero nonno c'era cascato con tutti i baffi. Dopo che un altro eroe provò a fare due passi verso il cerro, rischiando il collo per una nuova carica, il gruppo decise di chiudere con la battuta: le perdite stavano diventando troppo alte.»
Geppo e Stilo sono a bocca aperta, occhi fissi sul narratore, immaginazione che si lascia trasportare dall'atomosfera truce e disperata della storia. Continuano ad annuire con gli occhi lucidi. Alfio fa un altro sorso prima di continuare, e si concede una lunga aspirata di fumo.
«Ma qui viene il bello. Pietro fu abbandonato al suo destino. Ma non morì.».
«No way fra'!» esclama Geppo, sempre più preso.
«Chissà, forse aver dato un nome a quel cucciolo era servito a qualcosa, forse quei cazzo di bestioni hanno sentimenti simili ai nostri, ma Pietro fu risparmiato, e le sue tremende ferite curate con erbe masticate e il fango delle loro insoglie. Dodici anni dopo iniziarono i primi avvistamenti, poi le cose si fecero pesanti.» Una seconda aspirata di fumo lascia una pausa carica di aspettative, «Un uomo peloso venne spesso sorpreso a grufare coi cinghiali selvatici lungo i fiumi della zona. Chi l'aveva visto da lontano disse che al posto di mani e piedi aveva una specie di zoccoli di cuoio, e che si muoveva meglio a quattro zampe che in piedi, posizione in cui camminava tutto sbilenco. Infine, una notte fredda e piovosa, all'inizio di un inverno che si annunciava duro, il paese fu invaso da un'orda di verri inferociti che devastarono tutto. Fienili spalancati, pollai ribaltati, carri sconquassati. Quando gli uomini si resero conto di quello che stava succedendo era troppo tardi, la furia del branco era come un fiume in piena e qualcuno rischiò il collo cercando di scappare.»
«No, zio, ma a me ancora spiace per Pietro!» esclama Stilo con la bocca che tracima arachidi.
«Ma oltre alla paura per quell'invasione improvvisa, sulla faccia di molti si dipinse l'orrore, il peccato, il senso di colpa. Tra quelle bestie scatenate, si muoveva a quattro zampe un ragazzo peloso, che si comportava in tutto e per tutto come un cinghiale: caricava, grugniva, strillava quei versi acuti dei porci, e inseguiva chiunque gli capitasse davanti. Alcuni dei vecchi cacciatori, quelli presenti alla maledetta battuta dodici anni prima, riconobbero subito il piccolo Pietro, e i suoi moncherini ormai duri come cuoio facevano 'clop-clop' quando correva all'attacco.»
«Daje, ecco l'Uomo Cinghiale!» esulta Geppo, gli occhi che brillano di un entusiasmo morboso.
Alfio ride guardando l'oste, un'intesa silenziosa tra veterani di storie oscure.
Stilo continua a bere: «E... quindi ogni anno fate una ba-battuta di caccia notturna in memoria del... pi-piccolo Pietro?!» chiede ondeggiando con la testa, le parole che gli sfuggono tra le labbra come foglie che sanno di birra.
Alfio batte un palmo sul tavolino già traballante: «No, ogni dodici anni, bamboccio: Pietro aveva dodici anni quando fu preso, e dodici anni dopo si rifece vivo. Pure io che sono un bifolco so' più intelligente di due fighetti come voi!»
«Zì, questo è andato di brutto» ridacchia Geppo lanciando un'occhiataccia all'amico. «Comunque bella storia. Quindi che fate ora? Vi armate tutti fino ai denti e andate nel bosco?»
Alfio sputa a terra, un gesto carico di disprezzo per la stupidità della domanda: «No, è ancora presto. Ogni dodici anni, un minuto prima della mezzanotte, andiamo alla radura sul Monte Fema, e lì aspettiamo.»
«Aspettate... che cosa, zì'?» domanda Geppo, sentendo il cuore accelerare.
«Che si faccia vivo l'Uomo Cinghiale.» risponde pacatamente Alfio, «Vedete, la leggenda continua. Pietro con Milo al suo fianco - che intanto era diventato un bestione pure lui - tornarono ogni anno a distruggere il paese fino a che non si raggiunse un accordo. Ogni dodici anni, il paese deve dare in sacrificio a Pietro e ai suoi cinghiali due giovani del paese, perché l'Uomo Cinghiale vuole cancellare piano piano la stirpe di quei cacciatori codardi che l'hanno abbandonato. L'ultima volta tra i sacrificati c'era il mio fratellio. Quindi, questa volta, abbiamo deciso di provare con... due forestieri.»
«È tutto uno scherzo, vero zì?» la voce di Geppo vacilla mentre cerca di tenere su l'amico. «Tipo una candid camera?»
«No fra', niente candid» biascica Stilo con la lingua impastata, cercando di mantenersi dritto. «È tipo un... un... come si chiama... role playing! Ecco... stiamo facendo un gioco!»
Ma il sorriso di Geppo gli muore sulle labbra quando vede gli occhi di Alfio, neri come pozzi senza fondo.
«La jeep è qui fuori, bambocci!» dice l'uomo alzandosi. «E non è un gioco».
Prima che possano anche solo pensare di scappare, quattro energumeni li sollevano di peso. Geppo si dimena: «Raga, dai, che cazzo! Non è divertente!»
«Lasciami 'ndare stronz...» biascica Stilo, ma la testa gli ciondola sul petto.
Il bar esplode in un boato di risate e applausi mentre i due vengono trascinati fuori in malo modo. Qualcuno urla «Prosit!», altri battono i boccali sul bancone.
«Un giro per tutti!» strilla Mario agitando una bottiglia. «Alla salute dell'Uomo Cinghiale!»
«E dei nostri ospiti!» gli fa eco il sindaco alzando il boccale, mentre la porta si chiude con un tonfo sordo dietro i due ragazzi.
Il sacrificio può cominciare.
«Babbo, andiamo a vedere il sacicicio?» balbetta timidamente la piccola Adele, aggrappata alla gamba del padre.
«Ma certo, principessa! Adesso aspettiamo la mamma e andiamo tutti.»
La radura su Monte Fema è un palcoscenico brullo, illuminato da una luna sbrindellata che si alza oltre le sagome nodose dei lecci e dei carpini della Valnerina. Al vecchio e solitario cerro sono legati Geppo e lo stralunato Stilo, che farfuglia frasi sconnesse tipo «Fra' che cazzo...» e «No vabbè raga...». Una corda ruvida e stretta passa intorno ai loro corpi e al tronco, dai piedi al collo.
I cacciatori sono sparsi tutt'intorno, in trepida attesa dell'arrivo dei cinghiali e del loro capo - quell'idiota che non sospetta come le nuove generazioni siano più scaltre degli antenati, e abbiano trovato rimedio alle loro maledette follie, come quel patto scellerato. Non è più accettabile sacrificare parenti o amici: due forestieri qualsiasi bastano e avanzano.
«Alfio!» urla Geppo.
«Fra', chiudi quella bocca che c'ho un bombolone in testa» balbetta Stilo con la testa che gli ciondola sul petto.
«Alfio! Perché continuate a pensare di essere voi i più intelligenti?» domanda ad alta voce nel vuoto silenzio della radura. Alfio, acquattato come gli altri tra i fitti alberi circostanti, tace. Stringe la sua doppietta Beretta calibro 12, un vecchio modello AS con calcio in noce marezzato, nascosto da un groviglio di rovi e ginestre selvatiche, con occhi attenti e orecchie vispe.
«Scommetto che la statale è piena delle vostre macchinone, volete tutti vedere come siete stati furbi a inculare l'Uomo Cinghiale!»
A queste parole, alcuni paesani nascosti iniziano a drizzarsi in piedi.
«Se siete tutti qui a farvi le seghe con 'sto sacrificio del cazzo, chi è rimasto a difendere il vostro paese dalla furia dei cinghiali?!»
Ora il brusio si alza da ogni nascondiglio, una donna prende il cellulare e chiama sua madre, il sindaco esce allo scoperto e cerca di calmare gli altri come un coglione.
«In questo momento» continua Geppo, ora con un ghigno bieco sulla bocca, «cento e più cinghiali stanno devastando le vostre case, e massacrando chiunque ci trovino dentro.»
Il panico prende piede, Alfio imbraccia il fucile e si dirige verso i giovani legati al cerro con lo sguardo di chi vuole spiegazioni e subito.
SGRUUUNCH!
Una zuccata potente gli colpisce le ultime costole fluttuanti sul fianco destro, fracassandole verso l'interno come gusci d'uovo sotto uno stivale. La forza dell'impatto è tale che le schegge ossee diventano proiettili di calcio che squarciano il peritoneo e trafiggono il fegato come punte di frecce. Il corpo di Alfio si piega come un ramoscello verde spezzato a metà: la colonna vertebrale scricchiola in una torsione innaturale, le vertebre lombari che ruotano a destra mentre quelle toraciche vengono strappate nella direzione opposta. Rotola pesantemente a terra, il midollo spinale tirato oltre il punto di rottura. Un dolore bestiale gli risale dalla schiena come lava incandescente, provocandogli conati violenti mentre urla come un animale scuoiato vivo.
Due grosse zanne si avvicinano al cerro solitatio, fauci bavose e con denti come tritaossa mordono fino a rosicchiarne la corteccia, e, con uno strappo bestiale, le corde che legano i ragazzi vengono tirate via come ragnatele.
«Che palle fra', potevi tirarla un po' per le lunghe, stava diventando troppo funny,» sbuffa Stilo, scrollandosi di dosso quelle pesanti corde di canapa grezza che puzzano ancora di stalla e fieno marcio.
Geppo lo fissa, incredulo: «Ma sei serio che ti sei messo pure a fare il tipo ubriaco?»
«Oh raga, dovevo flex-are un minimo: il turista coglione in botta assurda» risponde Stilo con un sorrisetto da schiaffi.
«Ma vattene affanculo va'!» ribatte Geppo scuotendo la testa, mentre intorno alla radura le urla dei paesani in fuga squarciano la foresta.
"Clap-clap".
Un suono secco spezza il loro scambio. Un'abominazione emerge dalla boscaglia, creatura metà uomo e metà bestia. Avanza prima a quattro zampe, battendo sul terreno moncherini deformi ricoperti da strati di cheratina nera e rugosa come corteccia morta. Dove un tempo c'erano mani e piedi, ora pulsano protuberanze gonfie e nodose, screpolate come terra arida, che trasudano un liquido denso e scuro dalle profonde fessure.
Si erge d'improvviso: il corpo massiccio supera i due metri, con un torso contorto e ampio quanto l'altezza stessa, avvolto da pelliccia ispida color ruggine che sbuca da brandelli di stoffa scura - forse i resti di un mantello - malamente drappeggiati fino alle ginocchia deformi.
Dal collo taurino, così spesso che la testa sembra fusa con le spalle, sporge una mascella ipertrofica. Tra le labbra riverse brillano denti giallastri, un incubo di zanne porcine fuse con molari umani. La chioma è un groviglio di nodi e sterpaglie, incrostata di fango e grumi scuri. Il volto è una maschera grottesca dove l'umano si fonde col ferino: il naso allungato in un grifo carnoso, gli occhi ridotti a fessure giallastre sotto sopracciglia folte come rovi, le orecchie morsicate che sporgono tra i capelli come foglie marce. La pelle visibile tra i ciuffi di pelo è un labirinto di cicatrici e placche cornee, come se il corpo fosse ancora intrappolato in una metamorfosi senza fine tra uomo e bestia.
«Ciao, nonno!» esulta Stilo con una punta di orgoglio nella voce.
Dietro di lui, dozzine di cinghiali erompono da ogni dove, falciano la radura come una marea nera e si tuffano tra gli alberi con furia cieca. Urla di paura, spari nel vuoto, bestemmie, suppliche. L'aria frizzante della notte si gonfia di umori e terrore, il sottobosco beve sangue e viscere.
Tommaso il fabbro cerca scampo su un leccio, ma una zanna gli strappa il tendine come una corda tesa. Cade urlando, e tre bestie lo fanno a pezzi, le sue interiora si dipanano come serpenti sulla terra umida mentre cerca ancora di strisciare via con le braccia.
Lucia, la maestra, inciampa su una radice. Una scrofa mostruosa le trapassa la schiena, strappando vertebre e costole come stecchi secchi. Il suo urlo diventa gorgoglio quando i polmoni squarciati si riempiono di sangue.
Il vecchio Mario del bar spara due colpi nel vuoto. Un cinghiale lo prende alle spalle: le zanne entrano nella coscia destra ed escono dall'anca sinistra. Il corpo si schianta contro un tronco e il cranio esplode come un frutto maturo.
Piero e Rosa corrono mano nella mano. Un branco li circonda: le bestie mordono, strappano, dilaniano. Le loro grida si fondono in un unico rantolo mentre vengono smembrati, le braccia e le gambe strappate via come ali di una mosca.
Il dottor Vincenzo cerca scampo dietro una quercia. Due verri lo inchiodano al tronco: uno gli sfonda il torace, l'altro gli squarcia il ventre. Le viscere fumanti colano come una cascata cremisi, mentre lui urla guardandosi morire.
L'aria si addensa di ferro e morte. I lamenti dei moribondi si mescolano ai grugniti bestiali e al rumore viscido della carne lacerata. Il sottobosco diventa una palude scarlatta dove brandelli di vestiti e pezzi di corpi galleggiano in pozze di sangue e bile.
Qualcuno invoca Dio, qualcun altro la madre. Solo grugniti rispondono.
«Proprio un bel lavoro, ragazzi,» tuona l'Uomo Cinghiale. La sua voce è un rombo cavernoso emerso dalle viscere della terra, ogni parola un gorgoglio umido. Gli occhi porcini, fessure giallastre incrostate di nero, si stringono malevoli mentre i dentacci sporgono dalla carne tumefatta delle labbra. «Stanotte metteremo fine alla discendenza di quei cacciatori infami. Uccidete tutti, ma salvate le femmine, il nostro popolo ha bisogno di crescere!»
I cinghiali rispondono con grugniti ferali simili a risate demoniache, continuando la loro caccia spietata. Le zanne luccicano di sangue sotto la luna come lame d'osso.
«Nonno...» mormora Geppo con venerazione quasi religiosa, «quando è che pure noi potremo diventare come te e la nonna? Tipo, strappare via 'sti piedi del cazzo e le mani?»
L'Uomo Cinghiale si volta verso il nipote, i moncherini cheratinosi che scricchiolano come legno mentre gli carezza il viso. «Presto, Geppo. Ma prima dovete studiare tra gli uomini, farvi delle amicizie, magari una famiglia. Poi, quando sarete più numerosi, tornerete qui ad abitare il paese che da stanotte sarà nostro.»
«Zio, ma quindi poi facciamo il rito dei piedi e delle mani?!» chiede Stilo con gli occhi luccicanti d'eccitazione infantile.
Una risata grassa e gutturale fa tremare le foglie. «Ah ah, ma certo. Vi prometto che saremo proprio io e Milo a strapparvi via piedi e mani!» I suoi denti, mosaico grottesco di zanne porcine e molari umani anneriti, brillano sinistri sotto la luna: «Voi giovani, sempre impazienti!»
fine
