Il nome della rosa

Un enigma dentro il tempo

Immaginate un monastero isolato tra le Alpi piemontesi, nel novembre del 1327. L'inverno avanza. Le campane scandiscono le ore canoniche. Qualcuno muore. E poi un altro. E un altro ancora.

Non è una storia gotica. Non è un gioco. È Il nome della rosa di Umberto Eco. E quello che sembra un semplice giallo medievale si rivela una macchina narrativa stratificata, colta, labirintica. Un libro che, come una biblioteca segreta, nasconde più chiavi di lettura di quante se ne possano trovare in una sola vita.

L'ambientazione non è casuale: un monastero benedettino, di regola cluniacense, luogo di rigore, di isolamento e di silenzio. Vi giungono due francescani, Guglielmo da Baskerville e il giovane novizio Adso da Melk. I francescani, sostenitori della povertà evangelica, sono in aperto conflitto con il potere papale. Il monastero è sede di un convegno delicatissimo: una disputa teologica tra delegati pontifici e rappresentanti dell'Ordine francescano, convocata per decidere se la povertà assoluta di Cristo e degli apostoli debba essere considerata un'eresia. Una questione che, più che dottrinale, è politica. E intanto, uno dopo l'altro, i monaci iniziano a morire.

Eco ambienta la sua prima opera di narrativa nel cuore del Medioevo. E non lo fa per esotismo o nostalgia. Lo fa da studioso. Da storico della semiotica, da filologo, da lettore appassionato di cronachisti medievali come Salimbene de Adam, o Salimbene da Parma, un frate minore del XIII secolo che raccontò la vita dell'epoca con dettagli così vividi da sembrare romanzo. Eco si documenta per un anno intero prima di scrivere anche una sola parola. Disegna mappe, costruisce genealogie, studia l'organizzazione degli ordini monastici, la struttura delle abbazie, i cataloghi delle biblioteche, perfino i nomi dei monaci.

Ma Il nome della rosa non è solo ambientazione storica. È anche un poliziesco. Guglielmo da Baskerville, il protagonista, è un ex inquisitore francescano che unisce la logica di Ockham alla deduzione di Sherlock Holmes. Il suo nome richiama volutamente il Mastino dei Baskerville di Conan Doyle. Accanto a lui c'è Adso, novizio benedettino, voce narrante e testimone. Un Watson monastico, ma anche un discendente spirituale del narratore dei racconti di Auguste Dupin, il primo investigatore letterario, nato dalla penna di Edgar Allan Poe.

Eco non si limita a usare questo schema. Lo smonta. Lo riempie di filosofia, di teologia, di filologia. Ogni indizio è un segno. Ogni morte, un mistero semiotico. Al centro del labirinto ci sono i libri, alcuni veri, altri immaginari, ma tutti capaci di uccidere. Il secondo libro della Poetica di Aristotele, quello sul riso, è il cuore simbolico del romanzo. Un testo perduto, che Eco trasforma in strumento narrativo e metafora del sapere proibito. Jorge da Burgos, il monaco cieco che lo custodisce e lo avvelena, è un omaggio paradossale a Jorge Luis Borges, il costruttore di biblioteche infinite.

Il romanzo è anche una riflessione sul ruolo degli amanuensi. Quei monaci che, copiando a mano le opere dell'antichità, hanno salvato la cultura classica dall'oblio. Ma, nella finzione, la biblioteca diventa anche il luogo dello scontro. Tra conoscenza e fede. Tra ragione e dogma. Tra il desiderio di sapere e la paura di ciò che il sapere può scardinare. È una lotta che attraversa tutto il libro, e che culmina nell'incendio che devasta la biblioteca, distruggendo non solo i libri, ma anche la possibilità stessa di conoscere.

E poi c'è il titolo: Il nome della rosa. Un titolo che non spiega, che non promette. Eco lo scelse dopo aver scartato decine di alternative più esplicite. Tra le fonti che lo ispirarono c'è un verso del monaco Bernardo di Cluny, tratto dal poema latino De contemptu mundi: "Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus". Della rosa primigenia non resta che il nome. Possediamo solo nudi nomi. È una riflessione nominalista. Ma anche una dichiarazione malinconica. Tutto svanisce: la bellezza, il sapere, il significato. Resta il segno. Il nome. E il lettore, che lo insegue.

Il titolo potrebbe evocare anche uno dei grandi best seller del Medioevo: Le Roman de la Rose. Un poema allegorico scritto in due tempi, da Guillaume de Lorris e Jean de Meung. Racconta la conquista amorosa di una rosa-simbolo, attraverso un sogno filosofico e sensuale. Il successo fu immenso. Copiato a mano in almeno trecento manoscritti, fu letto e tradotto in tutta Europa. Alcuni storici attribuiscono una versione italiana addirittura a Dante Alighieri. Ed è affascinante pensare che Adso, personaggio curioso, sensibile, amante dei libri, possa averlo letto. Se così fosse, il suo sguardo sul mondo — e sulla "sua" rosa — assumerebbe un'intensità ancora più profonda.

E proprio come il poema francese, anche il romanzo di Eco nasce con l'ambizione, dichiarata, di essere un best seller. Ma un best seller colto, stratificato, costruito per lettori disposti a perdersi. E infatti, pochi anni dopo la pubblicazione, Il nome della rosa arriva al cinema. Nel 1986, Jean-Jacques Annaud ne firma la trasposizione, con Sean Connery nel ruolo di Guglielmo e Christian Slater in quello di Adso. Il film, pur non potendo restituire la complessità filosofica e linguistica del romanzo, riesce a evocare la sua atmosfera cupa e misteriosa. Il successo è internazionale. E la scelta del cast, la fotografia austera, e la tensione narrativa funzionano.

Nel 2019, Rai 1 produce una serie televisiva ispirata al romanzo, con John Turturro nel ruolo del protagonista. Un progetto ambizioso, che espande alcune sottotrame e modernizza il racconto. Ma nonostante l'impegno produttivo e l'ottima interpretazione di Turturro, la serie non riesce davvero a restituire la profondità, la stratificazione e l'ironia dell'opera originale.

Il nome della rosa non si legge una volta sola. Si rilegge. Si interpreta. Si decifra. È un'opera che cresce con noi, che cambia con l'età e con lo sguardo. A vent'anni è un thriller. A trenta, un trattato filosofico. A cinquanta, un requiem per la conoscenza perduta.

E ogni volta che si chiude, si ha la sensazione che, da qualche parte, una biblioteca stia ancora bruciando.




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