Il Nome della Rosa

Il Medioevo secondo Umberto Eco: simbologia, storia, filosofia 

Immaginate un monastero isolato tra le Alpi piemontesi, nel novembre del 1327. L'inverno avanza, stringe le valli, i rintocchi delle campane scandiscono le ore canoniche. Qualcuno muore. E poi un altro. E un altro ancora.

Non è solo un mistero. Non è soltanto un giallo. Il nome della rosa, il primo romanzo di Umberto Eco, è un viaggio nella mente e nell'anima del Medioevo. Un affresco storico e simbolico, dove ogni dettaglio è reale o verosimile, ma anche carico di senso. Eco non racconta semplicemente un'epoca: la mette in scena come un teatro della verità e dell'enigma, della fede e del pensiero, della parola e del silenzio.

Siamo nel cuore del Trecento, un secolo inquieto. L'unità della Chiesa è minata da tensioni profonde. Il papa non risiede a Roma, ma ad Avignone, sotto l'influenza della monarchia francese. Perché? A partire dal 1309, la sede papale fu spostata da Roma alla città provenzale per volere di papa Clemente V, su pressione del re di Francia Filippo IV il Bello. Il trasferimento, motivato da questioni di sicurezza e da giochi di potere, segnò l'inizio di quella che gli storici chiamano la "cattività avignonese", una fase lunga quasi settant'anni in cui i papi risiedettero ad Avignone, spesso percepiti come strumenti della monarchia francese. Giovanni XXII, il pontefice in carica nel 1327, governa da lì con pugno fermo, accentuando il controllo dottrinale e intensificando l'uso dell'Inquisizione. La sede papale, lontana da Roma, suscita scandalo e malcontento. Petrarca, pochi decenni dopo, la definirà una Babilonia ecclesiastica. È in questo scenario che si inserisce la disputa narrata da Eco.

Il monastero che accoglie Guglielmo da Baskerville e il giovane Adso da Melk appartiene all'ordine benedettino, di regola cluniacense. È una comunità organizzata, severa, gerarchica. I monaci pregano, copiano manoscritti, osservano il silenzio, obbediscono all'abate. Il tempo non appartiene a loro, ma a Dio. Le ore sono sacre, come i testi. Ma sotto la superficie, si agitano tensioni profonde.

Guglielmo, frate francescano, è stato inviato a mediare una controversia delicatissima. I francescani, ordine fondato da Francesco d'Assisi nel 1209 e approvato ufficialmente nel 1223 da papa Onorio III, si sono divisi nel tempo. Alcuni, i Conventuali, accettano una certa stabilità e proprietà collettiva. Altri, gli Spirituali, insistono sulla povertà assoluta, quella che Francesco stesso aveva vissuto. Ubertino da Casale, presente nel romanzo, fu tra i più radicali. La questione, all'apparenza dottrinale, è in realtà politica: se Cristo e gli apostoli non possedettero nulla, anche la Chiesa dovrebbe spogliarsi di ogni ricchezza. Una tesi che mina il fondamento stesso del potere ecclesiastico.

In questo contesto, Guglielmo da Baskerville incarna una figura straordinaria. È, insieme, un pensatore e un investigatore. Eco lo costruisce come sintesi tra Guglielmo di Ockham, il filosofo francescano del XIV secolo, padre del nominalismo e fautore della parsimonia logica, e Sherlock Holmes, l'investigatore razionalista inventato da Conan Doyle. Come Holmes, Guglielmo osserva, deduce, interpreta segni. Come Ockham, rifiuta gli universali come realtà ontologiche e crede che la conoscenza si fondi sui nomi, non sulle essenze. Porta con sé un paio di occhiali, oggetto raro ma storicamente plausibile. Le prime lenti da lettura furono inventate in Italia alla fine del Duecento. Non è un anacronismo, ma un dettaglio erudito. Gli occhiali diventano simbolo della razionalità che cerca di vedere meglio, di leggere il mondo e i suoi enigmi.

Al suo fianco c'è Adso da Melk, novizio benedettino, sedicenne, figlio di un barone austriaco. È il nostro sguardo nel Medioevo. Racconta gli eventi molti anni dopo, da vecchio, con la distanza della memoria e della riflessione. È colto, ma ingenuo. Scopre il desiderio, la paura, il dubbio. Attraverso i suoi occhi, vediamo la vita del monastero, le sue regole, i suoi silenzi, le sue tensioni. I suoi stupori sono i nostri.

Il Medioevo narrato da Eco è attraversato da eresie. I Dolciniani, seguaci di Fra Dolcino, predicarono un cristianesimo radicale, comunitario, apocalittico. Furono sterminati. I Fraticelli contestavano il possesso ecclesiastico. I Catari, già bruciati nel secolo precedente, credevano in una rigida separazione tra spirito e materia. L'Inquisizione, nata nel XIII secolo, aveva il compito di reprimere queste deviazioni. Bernardo Gui, personaggio realmente esistito, è l'inquisitore inviato al monastero. Scrisse un manuale per inquisitori, il Practica Inquisitionis, e fu attivo nella repressione dei movimenti ereticali. Eco lo rappresenta come uomo di potere, inflessibile, incapace di comprendere ciò che non può controllare.

La biblioteca del monastero è il cuore simbolico del romanzo. È un labirinto, costruito su pianta ottagonale, in cui ogni sala è una lettera, ogni scaffale una lingua. È il luogo del sapere, ma anche della censura. Alcuni libri sono vietati, nascosti, avvelenati. Il secondo libro della Poetica di Aristotele, dedicato al riso, è il centro del mistero. Un testo perduto, che Eco reinventa come oggetto proibito. Il riso, nel Medioevo, è sospetto. Può essere diabolico, può minare l'autorità. Jorge da Burgos, il monaco cieco che custodisce e avvelena il libro, ha un nome che è un omaggio esplicito a Jorge Luis Borges, scrittore argentino, anch'egli cieco, che immaginò biblioteche infinite, libri totali, labirinti mentali. Come Borges, Jorge crede che alcuni libri non debbano essere letti. Che la conoscenza debba essere custodita, non diffusa. Che ci siano verità troppo pericolose per essere rivelate.

Il Medioevo raccontato in questo romanzo è al tempo stesso concreto e interiore. Ogni dettaglio nasce da una solida base documentaria, ma viene trasformato in visione, in simbolo, in racconto. Gli anacronismi non sono errori, ma scelte volute, cariche di significato. Fra le fonti che l'autore ha certamente consultato c'è Salimbene de Adam da Parma, frate francescano del XIII secolo. Il suo modo di scrivere, intimo, curioso, attraversato da voci e ricordi, ha probabilmente contribuito a modellare la voce di Adso, che osserva il mondo con uno sguardo giovane, inquieto, spesso meravigliato. Guglielmo, invece, pensa come un uomo moderno, perché il suo compito non è solo risolvere enigmi, ma interrogare il senso stesso del conoscere. La biblioteca è, sì, un luogo medievale, ma anche l'immagine di un sapere che si oscura, si nasconde, si brucia. Il romanzo, in fondo, è costruito come un labirinto di segni: non offre risposte, ma continua a porre domande.

E poi c'è il titolo: Il nome della rosa. Un titolo enigmatico, volutamente vago. Eco lo scelse dopo aver scartato molte alternative più esplicite. Il verso latino di Bernardo di Cluny, "Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus", suggerisce che della rosa non resta che il nome. È una riflessione nominalista, ma anche un'elegia. Tutto passa: la bellezza, il sapere, la verità. Resta solo la parola. Il segno. Il nome.

Il titolo può evocare anche Le Roman de la Rose, celebre poema allegorico medievale, scritto in due tempi, da Guillaume de Lorris e Jean de Meung. Racconta la conquista di una rosa-simbolo, tra desiderio e filosofia. Fu copiato in centinaia di manoscritti, letto in tutta Europa. Alcuni studiosi hanno ipotizzato che una versione italiana possa essere stata realizzata da Dante Alighieri stesso, affascinato dalla struttura simbolica e morale del poema. È suggestivo pensare che Adso, giovane colto e curioso, possa averlo letto. E che la sua rosa — la ragazza amata per una notte, senza nome né volto — ne sia un'eco lontana.

Nel 1986, Jean-Jacques Annaud porta il romanzo al cinema. La regia è tesa, cupa, immersa in una luce livida che trasforma l'abbazia in un teatro dell'ombra. Sean Connery, nella parte di Guglielmo, unisce autorevolezza e ironia, incarnando alla perfezione lo spirito del personaggio. Christian Slater, nei panni di Adso, restituisce la fragilità e la curiosità dell'apprendista. Il film riesce a evocare l'atmosfera del romanzo, ma inevitabilmente semplifica la sua densità concettuale. La filosofia, la semiotica, la teologia sono ridotte a sfondo. Tuttavia, il film ha il merito di aver reso visibile un Medioevo cupo, sensoriale, non idealizzato. Un Medioevo che odora di pergamena, di freddo e di sangue.

Nel 2019, Rai 1 produce una serie televisiva in otto episodi. La regia è di Giacomo Battiato, Guglielmo è interpretato da John Turturro. La serie prova ad ampliare la narrazione, a inserire sottotrame politiche, a costruire un mondo più espanso. Ma, nel tentativo di attualizzare il racconto, si perde qualcosa dell'ambiguità e dell'ironia di Eco. La stratificazione del romanzo, la sua natura di ipertesto ante litteram, sfugge ai codici della serialità televisiva. Resta un'opera interessante, ma lontana dalla tensione epistemologica del libro.

Il nome della rosa non si legge una volta sola. Si rilegge. Si interpreta. Si decifra. È un'opera che cresce con noi, che muta con l'età, con lo sguardo, con il tempo. A vent'anni è un thriller. A trenta è un trattato di filosofia. A cinquanta è un'elegia per il sapere perduto, un canto malinconico per la verità che brucia.

E ogni volta che si chiude, si ha la sensazione che, da qualche parte, una biblioteca stia ancora divampando.




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