
Il Primo Maggio attraverso Tre Film Italiani
Il Primo Maggio in Italia è una giornata che nasce dalla storia, non dalla retorica, è un punto di arrivo e, al tempo stesso, un promemoria di tutte le battaglie che hanno segnato il lavoro come spazio di dignità, di conflitto e di emancipazione. Per comprenderne la traiettoria, bastano tre film italiani, ciascuno espressione del proprio tempo, tre ritratti che, messi in fila, formano un atlante della trasformazione del lavoro e della sua coscienza.

Il primo è I compagni, girato da Mario Monicelli nel 1963 ma ambientato nella Torino di fine Ottocento, in un'Italia ancora rurale ma già segnata dai primi effetti del capitalismo industriale. Gli operai tessili lavorano quattordici ore al giorno, gli infortuni sono frequenti, le tutele inesistenti, e la coscienza di classe, in quel contesto, non è ancora una struttura ideologica, ma un gesto elementare, una necessità primitiva. La richiesta di ridurre il turno di un'ora dà inizio a uno sciopero, e da lì alla repressione.
Marcello Mastroianni interpreta un intellettuale socialista, il professor Sinigaglia, che arriva da Genova e aiuta gli operai a organizzarsi, portando con sé non una salvezza, ma un linguaggio, una visione, un metodo. Monicelli costruisce un film storico ma non didascalico, popolare ma mai compiacente, racconta la nascita di un'idea collettiva di giustizia, alternando toni da commedia all'italiana a momenti di vera tragedia sociale. Qui il lavoro è ancora fisico, brutale, totalizzante, ma lo spazio della lotta è aperto, la speranza è dentro il conflitto, e la sconfitta è solo apparente perché genera memoria.

Con La classe operaia va in paradiso, diretto da Elio Petri nel 1971, il paesaggio cambia radicalmente, non soltanto per l'ambientazione, che è contemporanea al tempo del film, ma perché siamo ormai nel cuore della grande industrializzazione. La fabbrica è diventata un sistema chiuso, razionale, disciplinare, in cui l'operaio è un ingranaggio tra altri ingranaggi. Lulù Massa, interpretato da Gian Maria Volonté, è un operaio modello della catena di montaggio, efficiente, isolato, produttivo, ma anche profondamente inconsapevole del sistema che lo schiaccia.
Dopo un incidente sul lavoro, si avvicina al sindacato, agli studenti, ai linguaggi della critica sociale, ma la sua trasformazione è tormentata, contraddittoria, mai pienamente compiuta. Petri non racconta semplicemente un'autocoscienza, ma una frattura interna, una crisi dell'identità operaia, e lo fa con uno stile visivo disturbante, montaggi frenetici, ambienti claustrofobici, suoni stridenti. La fabbrica, che in I compagni era luogo di solidarietà, qui diventa spazio di alienazione, e il lavoro non è più solo sfruttamento materiale, ma perdita di sé, del corpo, del tempo, della dignità.
È la grande industrializzazione che produce questa nuova coscienza, più disillusa ma anche più profonda, come già mostrava Chaplin in Tempi moderni, dove il corpo dell'operaio si fonde letteralmente con la macchina. Ma mentre Chaplin cercava un'uscita attraverso la tenerezza e la poesia, Petri mostra il crollo della soggettività dentro la logica produttiva, e la lotta, anche se continua, appare già in parte svuotata. È il Novecento delle conquiste sindacali, certamente, ma anche dell'impotenza di fronte a un capitalismo sempre più sofisticato, più pervasivo, più resistente alla critica.

Nel terzo film, Tutta la vita davanti di Paolo Virzì, uscito nel 2008, la lotta di classe non c'è più. La fabbrica scompare, sostituita da un call center, e Marta, giovane neolaureata in filosofia, entra in un mondo dove il lavoro è precario, competitivo, spettacolarizzato, fatto di turni instabili, contratti a progetto, motivatori aziendali, sorrisi obbligatori. Non ci sono più padroni riconoscibili, né gerarchie solide, ma un sistema flessibile, liquido, che sfrutta attraverso la promessa di autonomia, di carriera, di autorealizzazione.
Virzì adotta un registro grottesco, ma lo sguardo è lucido, e il quadro che ne emerge è quello di un capitalismo che non si limita più a vincere, ma che esige l'umiliazione, la resa, l'assimilazione completa. Il lavoro non è più un diritto, né una fonte di identità, è una prestazione effimera, reversibile, che non costruisce cittadinanza né futuro. Il film anticipa, in un certo senso, quella condizione che molti studiosi, da David Harvey a Luciano Gallino, hanno descritto con chiarezza: la lotta di classe è finita, ma non nel senso auspicato da Marx. È finita perché è stata vinta da una delle due parti, e chi ha vinto non si è accontentato della vittoria, ha continuato a smantellare i diritti, a isolare i lavoratori, a trasformare la precarietà in una norma, e la flessibilità in un dogma.
Questa traiettoria, da I compagni a Tutta la vita davanti, passando per La classe operaia va in paradiso, ci mostra che il Primo Maggio non è una festa del lavoro in senso generico, ma una giornata di consapevolezza storica, un giorno in cui ricordare che il lavoro ha avuto un prezzo, che il diritto non è mai stato concesso ma conquistato, che la memoria delle lotte non può essere separata dalla critica dell'oggi. Il cinema, con i suoi linguaggi diversi, ci restituisce questa complessità, ci invita a non dimenticare, ci mostra le metamorfosi del lavoro e le forme mutevoli del potere.
Il Primo Maggio, allora, non va celebrato come una ricorrenza, ma attraversato come un esercizio di coscienza, perché ogni generazione eredita dal passato il compito di rinegoziare il proprio rapporto con il lavoro, con la dignità, con il tempo.
Sasha Bazzov