
Le Rose di Versailles - Recensione
Titolo originale: ベルサイユのばら (Berusaiyu no Bara)
Titolo italiano: Le rose di Versailles – Lady Oscar
Data di uscita Italia: 30 aprile 2025 (rilascio diretto su Netflix
Regia: Ai Yoshimura
Sceneggiatura: Tomoko Konparu
Supervisione creativa: Riyoko Ikeda
Studio di animazione: MAPPA
Distribuzione (Italia e internazionale): Netflix
Durata: 117 minuti
Produzione: Toei Animation, MAPPA
Colonna sonora originale: Masaru Yokoyama
Montaggio: Satoshi Kan
Genere: Animazione, storico, drammatico, musicale
Quando nel 1979 Lady Oscar fece il suo esordio in Giappone, il pubblico reagì con freddezza: in alcune regioni la serie fu addirittura interrotta. Ma tre anni dopo, nel 1982, quell'anime trovò una nuova vita e un pubblico appassionato in Italia, dove venne trasmesso per la prima volta su Italia 1, all'interno di Bim Bum Bam. Da quel momento, Oscar François de Jarjayes entrò nel cuore di una generazione, diventando molto più che una semplice eroina animata. In un'epoca dominata da robottoni e avventure spaziali, la serie diretta da Tadao Nagahama e Osamu Dezaki portò con sé la grazia di uno shojo raffinato, la complessità di un dramma storico e una protagonista destinata a diventare un'icona culturale. Oscar, cresciuta come un uomo per volere paterno, incarnava una figura ambivalente e potente, sospesa tra dovere e desiderio, tra appartenenza e ribellione. Il suo legame con Maria Antonietta, insieme profondo e tormentato, dava forma a una narrazione capace di evocare interrogativi sull'identità, il potere e la giustizia sociale, in un contesto che attraversava con rigore la storia dell'Ancien Régime.
A distanza di oltre quarant'anni, il nuovo film Le rose di Versailles, distribuito da Netflix e animato dallo Studio Mappa, tenta di rivisitare quel patrimonio emotivo e narrativo, ma fallisce nel restituirne la sostanza. Nonostante la fedeltà visiva al manga di Riyoko Ikeda – evidente nella palette pastello, nei costumi rococò e nelle inquadrature che omaggiano le tavole originali – l'opera sembra smarrire la profondità che aveva reso indimenticabile l'anime classico. Il film riduce vent'anni di vicende storiche in meno di due ore, eliminando sottotrame cruciali e comprimendo i personaggi secondari in semplici comparse. Spariscono così figure come Jeanne de Valois, la contessa du Barry o Rosalie Lamorlière, la cui presenza era fondamentale per articolare il tessuto sociale e morale della storia.
Ma il vero tradimento riguarda i protagonisti stessi. Oscar, che nel manga e nell'anime era un personaggio fiero, retto da una tensione interiore drammatica e vibrante, viene qui appiattita a figura sentimentale, priva di quell'ambiguità che l'aveva resa complessa e magnetica. La sua androgina fierezza, il gusto provocatorio con cui sfidava le convenzioni, la maturazione politica che la conduceva dalla corte al popolo: tutto questo sfuma in un racconto che sceglie di concentrarsi su dinamiche amorose scontate, fino a trasformare l'intenso legame con André in una vicenda da soap. Maria Antonietta, dal canto suo, perde progressivamente il suo arco tragico e viene ritratta con tratti più capricciosi che regali, senza mai spiegare davvero le ragioni del suo cambiamento.
Dal punto di vista formale, il film si presenta come un musical, con oltre quindici brani cantati in giapponese e inglese, che dovrebbero accompagnare le emozioni dei personaggi ma finiscono per appesantire il ritmo e banalizzare i momenti chiave. L'uso invadente della CGI, unito a movimenti rigidi su sfondi digitalizzati, contribuisce a creare un senso di disarticolazione visiva che mal si sposa con l'eleganza dell'ambientazione settecentesca. Il risultato è una narrazione frammentata, costruita su tableaux vivants più che su una progressione coerente, dove le ripetizioni e i flashback appaiono come un espediente per colmare il vuoto drammaturgico.
Questi limiti risultano ancora più evidenti se si considera la cura con cui il manga originale e l'anime affrontavano la dimensione storica. Riyoko Ikeda si era documentata su testi di Stefan Zweig, Albert Soboul e Victor Hugo per costruire una narrazione che, pur romanzata, affondava le radici nella verità dei fatti. L'anime, sebbene più romanzato rispetto al fumetto, conservava l'essenza di quell'accuratezza: dalla marcia su Versailles all'affaire della collana, dalla figura del cardinale de Rohan fino ai fermenti rivoluzionari, ogni evento era inserito con una funzione narrativa e simbolica. L'educazione sentimentale di Oscar e Maria Antonietta era inseparabile dal destino politico della Francia.
In Italia, questo legame tra storia, sentimento e lotta trovò un terreno straordinariamente fertile. Lady Oscar non fu mai percepita come un semplice cartone per bambini. L'anime colpì immediatamente l'immaginario collettivo. La sigla de I Cavalieri del Re, con immagini evocative e un tono epico, divenne un caso musicale, contribuendo a creare un culto attorno alla serie. Ma più ancora della musica, fu la figura di Oscar a incarnare un'identificazione profonda: ambigua, fiera, in lotta con il proprio ruolo, parlava all'Italia degli anni '80, una nazione affascinata dalla Francia rivoluzionaria e attraversata da tensioni simili tra potere e popolo, tra cuore e dovere.
Oscar è diventata un simbolo queer e femminista ante litteram. In un'Italia ancora lontana dal dibattito sull'identità di genere, lei si impose come un'eroina fuori dagli schemi, capace di incarnare la complessità dell'essere umano al di là delle etichette. Anche se il doppiaggio italiano attenuò alcune sfumature, il pubblico seppe leggere tra le righe. Lady Oscar educava i bambini all'empatia, alla riflessione, al senso del tragico. E in un Paese dove la televisione era spesso il primo veicolo di formazione emotiva, l'anime trovò una risonanza culturale che nessun altro prodotto giapponese ha mai eguagliato.
Nel finale del film Netflix si consuma forse l'errore più grave: la morte di Oscar, che nell'anime era una sequenza poetica e solenne, viene qui trasformata in un melodramma forzato e privo di pathos. Il tempo non si ferma, le colombe non volano, e la memoria di un personaggio che aveva saputo incarnare la dignità della lotta e l'orgoglio della libertà viene sacrificata sull'altare di una semplificazione emotiva.
Le rose di Versailles poteva essere un'occasione per rinnovare il mito di Lady Oscar con nuovi strumenti visivi e sensibilità contemporanee. Ma quando si dimentica che la bellezza di una rosa non è solo nei petali, ma anche nelle spine, si finisce per offrire un fiore finto, senz'anima.

Sasha Bazzov