Controvento: Storia e Immaginario della Pirateria
Nel cuore del Seicento, mentre le monarchie europee si contendono rotte, colonie e risorse, il mare diventa teatro di una guerra senza confini. Spagna, Inghilterra, Francia e Olanda competono per il controllo dell'Atlantico e dei Caraibi, trasformando le acque in corridoi di potere, in cui circolano non solo merci e armi, ma anche uomini sradicati, marinai senza paga, soldati in disarmo, coloni falliti e schiavi in fuga. La pirateria nasce lì, non come un'eccezione, ma come sintomo di un ordine globale che produce i propri nemici e li lascia annidare nelle sue pieghe.
Alla base di questo fenomeno stanno due figure distinte, spesso confuse: il corsaro e il pirata. Il primo agisce con licenza, armato di una lettera di marca concessa da un sovrano, e quindi legittimato a saccheggiare i nemici dello Stato. Il secondo è un fuorilegge a tutti gli effetti, che non risponde ad alcuna autorità e attacca chiunque attraversi la sua rotta. Ma questa distinzione, pur formale, si sfuma nella pratica: molti corsari, una volta esaurita la guerra o traditi dai propri protettori, si trasformano in pirati, scegliendo la libertà instabile dei venti alla disciplina delle flotte.
Tra il 1650 e il 1730, la cosiddetta età d'oro della pirateria, si moltiplicano le comunità clandestine che occupano porti marginali come Port Royal, Nassau, Tortuga. Le navi diventano microcosmi sociali, dove spesso il bottino viene spartito in modo egualitario, i capitani eletti e le punizioni decise collettivamente. In queste forme primitive di autogoverno, fragili e contraddittorie, si intravede un'altra idea di società, partorita dal naufragio delle gerarchie terrestri. Le biografie dei pirati reali raccontano questa tensione tra sopravvivenza e utopia: Henry Every diventa una leggenda dopo aver catturato una nave del Gran Mogol e fatto perdere le proprie tracce; Edward Teach, detto Barbanera, coltiva il terrore come forma di potere simbolico; Anne Bonny e Mary Read infrangono le leggi del genere prima ancora di infrangere quelle della corona. La loro esistenza sfida ogni categoria morale, perché nasce in fratture in cui la legge non è più un riferimento, ma un nemico.
Quando le potenze europee decidono di chiudere questa parentesi, lo fanno con una repressione metodica: impiccagioni pubbliche, caccia all'uomo, cancellazione della memoria. Ma ciò che sfugge al controllo è il racconto. La figura del pirata, cacciata dalla Storia, rientra dalla porta della letteratura. Nel 1724, un'autobiografia collettiva mascherata da cronaca, A General History of the Pyrates, trasforma i criminali in personaggi. E nel 1883, con Treasure Island, Robert Louis Stevenson definisce le coordinate di un immaginario che non ha più bisogno di verità storica per funzionare: la mappa, l'isola, il pappagallo, il rum, la ciurma, il tradimento. Da quel momento, il pirata non è più solo ciò che è stato, ma ciò che rappresenta: la libertà come esilio, il mare come spazio dell'erranza, la nave come unica patria possibile.
Nel Novecento, il cinema eredita questo immaginario e lo trasforma. Nei primi decenni, il pirata è un eroe romantico, spavaldo, pronto a sfidare i tiranni e a sedurre le dame. Ma nel 1986, Roman Polanski strappa il sipario del mito con Pirati, un film scomodo e corrosivo. Il Capitano Red, interpretato da Walter Matthau, è un uomo miserabile, affamato, rozzo, che incarna la decadenza delle visioni eroiche. La nave puzza di stiva, i marinai sono superstiti della miseria, e il bottino è una promessa che si dissolve tra le dita. Il film disinnesca ogni nostalgia, restituendo alla pirateria la sua verità materiale: la fame, il sangue, l'accidente.
Nel 2003, Pirati dei Caraibi: La maledizione della prima luna rilancia il mito in chiave spettacolistica. Jack Sparrow è un clown tragico, un trickster che barcolla tra follia e astuzia, tra menzogna e poesia. Il suo spazio è quello dell'ambiguità, della dissimulazione, del doppio gioco. La saga, pur immersa nella fantasia, intercetta il cuore della questione: il pirata non è solo un fuorilegge, ma un interprete instabile del potere, capace di oscillare tra ribellione e compromesso, tra rovina e salvezza.
In Assassin's Creed IV: Black Flag, il videogioco Ubisoft ambientato nel 1715, la figura del pirata viene immersa in una riflessione ampia sul controllo e sull'autonomia. Edward Kenway, il protagonista, non è un eroe, ma un sopravvissuto. Il suo percorso, segnato da scelte ambigue e perdite dolorose, attraversa l'illusione di una repubblica libertaria fondata a Nassau, dove i pirati tentano di costruire un ordine nuovo, fuori dalle logiche imperiali. Quel sogno, però, si infrange sotto il peso delle ambizioni personali, delle contraddizioni interne, dello sguardo onnipresente della Storia. Il gioco, più che glorificare la pirateria, ne mette in scena il fallimento come testimonianza di una possibilità negata.
La serie Black Sails, andata in onda tra il 2014 e il 2017, compie un'ulteriore svolta. Prequel ideale di Treasure Island, è in realtà una lunga meditazione sul potere, sul trauma, sulla costruzione dei miti. Il Capitano Flint, figura centrale e tragica, è un uomo spezzato che cerca, attraverso la violenza e la narrazione, di riscrivere il mondo. I personaggi non sono mai semplici: ognuno porta con sé le ferite di un passato negato, e ognuno si muove tra desiderio di libertà e bisogno di controllo. La serie, con una scrittura densa e complessa, restituisce alla pirateria la sua dimensione politica, ma anche esistenziale.
Nel mondo dell'animazione giapponese, la figura del pirata
assume forme nuove, ma conserva il nucleo simbolico che la rende
universale. One Piece, manga e anime di Eiichiro Oda,
racconta una lunga odissea in cui la ciurma diventa famiglia, e il
tesoro un pretesto per esplorare la fedeltà, il riscatto, la
memoria. Luffy, il protagonista, è un pirata che non cerca
ricchezza, ma legami. La sua nave non è solo un mezzo, ma uno spazio
simbolico dove si costruisce un mondo alternativo, uno dopo l'altro,
isola dopo isola.
In Capitan Harlock, la pirateria si
proietta nello spazio: Harlock è un dissidente, un solitario in
lotta contro un sistema che ha rinunciato a vivere. La sua nave,
l'Arcadia, attraversa galassie disabitate, portando con sé una
nostalgia irriducibile per un'umanità perduta. La sua ribellione
non è più rivolta al mondo, ma al tempo stesso.
Questa immaginazione ribelle, però, non appartiene solo ai mari
del passato o alle galassie del futuro. Vive anche nei quartieri
periferici, nei pomeriggi d'estate, nei gruppi di bambini che,
senza saperlo, mettono in scena la stessa tensione tra appartenenza e
libertà.
Nel film I Goonies (1985), diretto da Richard
Donner e scritto da Chris Columbus su soggetto di Spielberg, un
gruppo di ragazzini scopre una mappa del tesoro e parte per
un'avventura sotterranea. Ma il vero tesoro non è l'oro del
pirata Willy l'Orbo: è la possibilità di salvare il proprio
quartiere, il proprio mondo, dalla speculazione edilizia che minaccia
di cancellarlo.
In quella storia, il codice della pirateria
diventa linguaggio dell'infanzia: la ricerca del tesoro è un atto
di resistenza, la ciurma è un'alleanza fragile ma autentica, e
l'avventura è una forma di opposizione. I bambini si fanno pirati
per non diventare ciò che il mondo adulto ha già deciso per
loro.
Ed è in questa dinamica che la pirateria ritrova il suo
significato più profondo: non come alternativa criminale, ma come
gesto simbolico di chi rifiuta la rassegnazione.
Lo stesso accade in molte narrazioni per l'infanzia e
l'adolescenza, dove l'elemento pirata diventa codice di
emancipazione. In Peter Pan, l'Isola che non c'è è
popolata da pirati, sì, ma anche da bambini che si rifiutano di
crescere secondo le regole. L'archetipo del "bambino perduto"
è, in fondo, quello del piccolo pirata: colui che abita il margine,
che sfugge alla legge del tempo, che inventa un ordine nuovo giocando
con i frammenti del mondo adulto.
Persino in videogiochi come
Sea of Thieves, dove l'esperienza è più ludica che
narrativa, la pirateria si costruisce come linguaggio comunitario: si
gioca in gruppo, si condivide la rotta, si costruisce una complicità
basata sull'improvvisazione. Anche qui, l'avventura non è mai
solo conquista, ma anche alleanza, invenzione, spazio creativo.
In questa stessa direzione si muove The Secret of Monkey Island, avventura testuale e grafica nata nel 1990 dalla mente di Ron Gilbert. Ambientato in un arcipelago caraibico immaginario, il gioco racconta le gesta di Guybrush Threepwood, un aspirante pirata goffo e idealista, il cui viaggio è una parodia affettuosa dei tropi classici del genere. La mappa del tesoro, il duello all'arma bianca, la rivalità con il pirata fantasma LeChuck: ogni elemento viene riletto con ironia e intelligenza, trasformando la tradizione in gioco linguistico. Ma sotto l'umorismo, Monkey Island conserva il nucleo tematico della pirateria come ribellione, sogno, ricerca di identità. Il protagonista non è un eroe, ma un sognatore intrappolato nelle sue stesse fantasie, che attraversa un mondo assurdo dove la logica è capovolta e il potere si prende in giro. È proprio questa leggerezza a restituire, paradossalmente, la profonda malinconia di un'avventura che non ha mai una vera fine, perché ciò che conta non è il tesoro, ma l'ostinazione con cui si continua a cercarlo.
A ogni latitudine, in ogni medium, il pirata sopravvive perché si
radica in una contraddizione che non si esaurisce mai: quella tra la
legge e il desiderio, tra l'ordine e il margine, tra la storia e il
mito. Non è un personaggio, ma un'emergenza. Non è un modello, ma
una soglia.
Per questo continua a tornare, a essere riscritto, a
parlare lingue diverse. Perché in ogni epoca esiste una rotta che
non si vuole seguire, una mappa senza coordinate, una vela che si
alza quando tutto il resto tace.
Anche nell'epoca digitale, la figura del pirata riemerge sotto nuove forme. Negli anni '70 e '80, tra garage e circuiti stampati, alcuni giovani ribelli hanno "depredato" il sapere tecnologico delle grandi aziende per renderlo accessibile a tutti. I pionieri dell'informatica, da Steve Jobs a Bill Gates, sono stati a loro modo corsari del silicio: hackeravano sistemi, smontavano dispositivi, riscrivevano codici. Non sempre rispettavano le regole, ma aprivano strade. Se oggi possiamo scattare selfie, condividere video o scrivere programmi da casa, è anche grazie a quei pirati che hanno immaginato un mondo in cui la tecnologia non fosse un privilegio, ma un diritto diffuso.
E finché ci sarà qualcuno disposto a salpare — che sia un
ribelle, un disertore, un bambino, un eroe fallito o un sognatore —
la bandiera nera non sarà solo un simbolo di morte, ma anche la
traccia ostinata di un'altra possibilità.
E finché ci sarà
qualcuno disposto a salpare — che sia un ribelle, un disertore, un
bambino, un eroe fallito o un sognatore — la bandiera nera non sarà
solo un simbolo di morte, ma anche la traccia ostinata di un'altra
possibilità.